Robe di Amilcare
Un altro ligure che partì per incontrare le Indie ma scoprì l’America. Inventò il Festival di Sanremo ma fece la Rassegna della canzone d’autore. Si era diplomato in ragioneria ma il suo mestiere fu quello di spedire fiori nel mondo. Comunque, una vita di bellezza e di ricerca, di avventure e di intuizioni. Una mistura eccezionale di lucidità e lungimiranza, cocciutaggine e fantasia, metodo e passione. E poi gusto dell’arte (recitava fin da ragazzo in una compagnia amatoriale) e impegno civile.
Ogni tanto, a causa della nota allergia dei fiori a farsi mettere nei cannoni, doveva interrompere il suo poetico lavoro e andare alle armi: dal ’35 al ’37 per la campagna etiopica; dal ’39 al ’43 per la seconda guerra mondiale; infine, nel ’43, organizzando i nuclei della Resistenza in Alta Valle Argentina. Le brigate nere lo fanno prigioniero e per un soffio sfugge alla fucilazione.
Finisce la guerra e la giunta Cln di Sanremo, l’amata città dove Amilcare Rambaldi era nato il 5 aprile 1911, nomina una commissione che studi il modo di amministrare il Casinò in vista della riapertura. Il socialista Rambaldi (che già presiede l’Ente comunale d’assistenza, sta riorganizzando l’Associazione commercianti di fiori ed è membro del Consiglio di amministrazione dell’ospedale civico) è chiamato a far parte come relatore della sottocommissione artistica, il cui compito è quello di proporre manifestazioni e spettacoli per rivitalizzare la città. Il 15 novembre 1945 Rambaldi, che come si è capito ama la musica ed ha fra i suoi migliori amici Pippo Barzizza e Alberto Rabagliati, presenta la sua relazione, piena di idee. Tra queste un Festival della canzone italiana.
La relazione non ha seguito perché la gestione del Casinò passa a privati, ma alcune proposte saranno poi realizzate (la Rassegna della moda, il Torneo internazionale di bridge). Non vengono invece prese in considerazione le iniziative di un Festival del cinema (l’anno successivo spunterà poco più in là quello di Cannes), di un Conservatorio e del Festival della canzone. Intanto i fiori sono tornati a sbocciare e Rambaldi, chiusa la parentesi politico-amministrativa, riprende a esportarli in giro per il mondo.
Due anni dopo conosce Angelo Nizza, quello di Nizza-Morbelli e dei “Tre moschettieri”, chiamato a Sanremo per dirigere l’ufficio stampa del Casinò. Diventano amici fraterni e Amilcare gli sussurra l’idea del festival, sollecitandolo ad insistere presso il gestore del Casinò, Pier Busseti, per far approvare la proposta. Passerà ancora del tempo e infine Nizza ottiene l’approvazione. Il 29 gennaio 1951, “dal Salone delle feste del Casinò Municipale di Sanremo”, Nunzio Filogamo annuncia la prima edizione del Festival della canzone italiana.
Nel 1971 il Festival compie vent’anni. Per un decennio ha rappresentato davvero la vetrina delle tendenze canzonettistiche nazionali, buone o disdicevoli che fossero. Poi ha intrapreso una china discendente, fino a ricevere nel 1967 la micidiale pallottola di Luigi Tenco. Nel ’71, appunto, Rambaldi ha un ritorno di fiamma e decide che è ora di far qualcosa per ricordare Tenco. “Da quel traumatico, triste episodio della fine di un ragazzo cui volevamo bene” raccontò poi “mi girava in testa l’idea che qualcuno dovesse prendere l’iniziativa per cercare organicamente di cambiare qualcosa nella canzone che continuava a deteriorare pubblico e artisti.” Così Amilcare torna in Comune e porta, stavolta, la proposta di una manifestazione riservata ai cantautori (in un primo tempo addirittura come “sezione del Festival), intitolata a Luigi Tenco. Ha per risposta sorrisi e pacche sulle spalle: sì, l’idea è buona, ma quel nome è ancora imbarazzante, meglio dimenticarlo, mamma Rai non gradirebbe. “Mi accorsi” sono sempre sue parole “di essere un formidabile ingoiatore di rospi.”
Amilcare non si arrende e poco tempo dopo, leggendo un articolo su Guccini, Ciampi e Vecchioni intitolato “Bravi, bravissimi, ma chi li vuole?”, risponde: “Li voglio io.” La sua lettera viene pubblicata e raccoglie inaspettati incoraggiamenti da tutta Italia. È così che Rambaldi scopre l’esistenza di un molto informale Club Tenco fondato a Venezia da una signora altrettanto generosa e temeraria, Ornella Benedetti, e stringe una prima intesa con i suoi rappresentanti (tra i quali, poco più che ventenne, il sottoscritto). Nel ’72 Rambaldi istituisce il Club Tenco di Sanremo, a cui aderiscono subito decine di giovani da tutta Italia.
Si tiene una serata inaugurale, madrina la cantautrice Antonella Bottazzi; e poi via via i primi concerti, con Gaber, Guccini, Siviero, Vecchioni. Nel ’74 la prima Rassegna della canzone d’autore e il primo Premio Tenco a un eccelso artista straniero: Léo Ferré. Gli italiani che partecipano a quella edizione hanno nomi che suonano così: Gino Paoli, Francesco Guccini, Roberto Vecchioni, Angelo Branduardi, Antonello Venditti, Ivan Graziani…
Da allora ne abbiamo viste di tutti i colori. Di solito bastava che “lo zio” alzasse il telefono e la sua voce era già da sola convincente: “Ragazzo, ti aspettiamo. Non abbiamo una lira ma siamo tra amici”. Se però non bastava, allora era capace di muovere mari e monti, senza nemmeno darlo a vedere. In vent’anni, esponendosi sempre in prima persona (anche economicamente), Amilcare Rambaldi, attorniato da un gruppo di collaboratori che come lui lavorano per pura passione senza intascare nulla, ha portato al “Tenco”, da varie parti del mondo, Charles Trenet e Tom Waits, Tom Jobim e Joni Mitchell, Atahualpa Yupanqui e Randy Newman, Alan Stivell e Silvio Rodríguez, Lluís Llach e Caetano Veloso, e così via. Ha coordinato vasti progetti organici imperniati su figure storiche come quelle di Vladimir Vysotskij e Pablo Milanés. Ha segnalato all’attenzione generale artisti pressoché sconosciuti o quanto meno ancora da valorizzare come Francesco Guccini, Paolo Conte, Roberto Benigni, Angelo Branduardi, Roberto Vecchioni, Gianna Nannini, Francesco Baccini, Davide Riondino, Vinicio Capossela. Ha proposto linguaggi d’avanguardia, etnie minoritarie, repertori non di massa, genialità anticonformiste. Ha capito subito quale formidabile serbatoio di vocazioni e di culture poteva essere quell’interporto di poeti e musicisti, quel traffico intellettuale di arrivi e partenze che lui convogliava allegramente alla stazione di Sanremo. E ha così incrociato tendenze e proiezioni d’ogni tipo, ha fatto spazio a discussioni e convegni, ha messo insieme talenti affini e opposti, è stato la calamita di una serie infinita di incontri umani e artistici fioriti nei giorni del “Tenco” dentro quel miracoloso habitat insieme colto e goliardico che riusciva a creare intorno a sé. Merita di citarne uno almeno, quello che mise Paolo Conte in contatto progressivo con Lluís Llach, Jacques Erwan e Olivier Gluzman: fondamentale trampolino di lancio per il vertiginoso successo oltre frontiera del nostro cantautore. “La vita, amico, è l’arte dell’incontro” diceva Vinicius de Moraes.
Per la sua instancabile attività Rambaldi finisce persino per ritirare premi, lui che i premi sapeva così bene trovarli e assegnarli: per esempio il riconoscimento di “cittadino benemerito” di Sanremo nel 1978, o quello di “Amico di Barcellona” per la valorizzazione della cultura musicale catalana, o il premio speciale istituito nel 1994 dal Gruppo Giornalisti Musicali per un operatore culturale.
Dal 1993 Amilcare finge di occuparsi meno della sua creatura, il “Tenco”, ma continua a controllarla da vicino pur affidandola al proprio entourage, che dall’inizio ad oggi è rimasto pressoché lo stesso. Sono le prove generali del “dopo-Rambaldi” che lui stesso, lucidamente come al solito, programma e sorveglia. Il “Tenco 93” va bene, altrettanto il “Tenco 94” e il 95. Così, finita quest’ultima Rassegna, con l’ultimo Premio Tenco a Sérgio Godinho, Amilcare, evidentemente soddisfatto e tranquillizzato, lascia passare appena qualche giorno e il 4 novembre 1995 se ne va nel sonno.
Noi eravamo convinti che Amilcare Rambaldi fosse destinato a vivere in eterno, anche perché ogni anno andava ripetendo senza alcuna credibilità che quello era l’ultimo. L’istinto immediato del “dopo-Rambaldi” è stato perciò di chiudere baracca e burattini. Ma l’abbiamo sentito subito che da non so dove Amilcare si stava incazzando. “Ragazzi, piantatela e datevi da fare” diceva. Così siamo andati avanti, e lui è sempre lì che sorveglia, con gli occhiali scuri e la sigaretta in mano. Per noi “Tenco” e “Rambaldi” non sono più due cognomi ma sono diventati la stessa entità, lo stesso meraviglioso giocattolo.
Enrico de Angelis